domenica 30 marzo 2014

L'IMMORTALITA' DELLA STORIA

Rieccomi con la recensione domenicale. Oggi voglio analizzare per voi il primo romanzo di un autore che mi ha colpito particolarmente. Mi riferisco a Massimiliano Colombo e al suo La legione degli immortali. Colombo ha esordito pochi anni fa ed è stato quasi subito - a giusta ragione - considerato il naturale erede di - nientepopodimeno che - Valerio Massimo Manfredi.
Come avrete certamente intuito, il genere di questo scrittore - che pubblica con Piemme - è il romanzo storico. Oltre a questo libro, ha scritto anche Il vessillo di porpora e Draco. L'ombra dell'imperatore, che criticherò per voi prossimamente.


TRAMA:
Nel 35 a.C. un vecchio soldato, dal ponte di una nave, osserva le coste della Britannia, ormai vicinissime. E comincia a raccontare. Venti anni prima aveva compiuto un altro viaggio verso quella terra insieme alla Decima Legione, la sua legione. A capo dell'esercito c'era Cesare. Sulla spiaggia, ad attenderli, un esercito di feroci guerrieri. Gli uomini erano titubanti. Sarebbe stato più prudente tornare indietro? Rinunciare? L'aquilifero (colui che portava il vessillo con l'aquila, nda), Lucio Petrosidio non aveva avuto dubbi e si era gettato in mare. L'intera legione l'aveva seguito.
Questa era stata solo la prima delle tante battaglie che gli uomini della Decima, Lucio, Massimo, Quinto, Valerio, Emilio hanno dovuto combattere per conquistare la Britannia e per proteggere la bella Gwynith dai capelli rossi, di cui Lucio era innamorato.
L'appuntamento col destino c'era stato ad Atuatuca, dove l'esercito era stato massacrato.
Chi è dunque quell'uomo e qual è il compito che deve portare a termine?

RECENSIONE:
Un romanzo che non si dimentica, questo di Massimiliano Colombo, forte, ma allo stesso tempo delicato. Racconta una storia d'amore passionale ma anche tenera che evidenzia un rispetto per la donna (una schiava, quindi all'epoca senza valore) da cui molti uomini oggi dovrebbero imparare.
Ma non ci sono solo l'amore o la guerra. Colombo delinea con efficacia il cameratismo che si instaura tra gli uomini della Decima, per i quali la legione è la vera famiglia (molti sono entrati a farne parte che avevano appena sedici anni). Ed è per la legione, forse ancora di più che per la patria, che quegli uomini sono pronti a morire. Un cameratismo che va addirittura oltre la morte di molti di loro.
Per gli appassionati del genere, sono presenti inoltre intrighi e giochi di potere.
Colombo parte da eventi realmente accaduti, di cui ha letto nel De Bello Gallico di Cesare, e inspiegabilmente sceglie un episodio minore, completamente dimenticato e raramente preso in considerazione dagli studiosi (tanto è vero che non ve ne è traccia né nei libri scolastici né in quelli universitari), perché a malapena accennato nelle fonti, in quanto causa di imbarazzo per i Romani vincitori. L'agguato di Atuatuca (poiché di questo si è trattato) è stato un vero massacro: si stima che nel corso di una giornata trovarono la morte dagli otto ai dodicimila uomini.
Ma non è solo la precisa ricostruzione storica, visibile in ogni più piccolo dettaglio, dall'organizzazione delle legioni, ai costumi e addirittura al cibo dei legionari, che mi ha colpito di questo romanzo, ma anche lo stile incalzante e allo stesso tempo descrittivo usato dall'autore.
Insomma un romanzo che vale la pena di essere letto sia che siate appassionati di storia sia che vi piaccia semplicemente leggere. E' un romanzo completo, accattivante, ben costruito e ben scritto.
Cosa volete di più?
Per il momento è tutto.

Biancaneve

martedì 25 marzo 2014

INTERVISTA A MONICA COPPOLA

Salve lettori, rieccomi con una nuova intervista. Quest'oggi ho intervistato per voi Monica Coppola. Ricordate? Ho recensito per voi il suo primo romanzo, Viola, vertigini e vaniglia, una frizzante e divertente chick lit. Sentiamo cosa ha da dirci!




BIANCANEVE (B): Ciao Monica, sono felice di ospitarti nel mio blog. Come prima domanda ti chiederei di presentarti per farti conoscere un po’ dai miei lettori.
MONICA COPPOLA (MC): Ciao Oli. Vediamo…Di me posso dirti che ho Laurea in lettere moderne, vivo e scrivo a Torino e ti ringrazio per lo spazio che concedi a me e a Viola, la mia protagonista. 
E in effetti più che di me, mi piacerebbe parlarvi un po’ di lei…
BVeniamo alla tua opera prima “Viola, vertigini e vaniglia”, una chick lit frizzante e divertente. Come ti è venuta l’idea per Viola? E’ in qualche modo autobiografica? Tu saresti disposta a mollare tutto per scrivere di un tacchino?
MC: Viola ha avuto una lunga gestazione: ha iniziato a prendere forma mentre lavoravo al mio primo libro, un diario ironico sul caos.
Mi piaceva l’idea di una protagonista che fosse spontanea e vivace. La volevo libera di muoversi nel suo mondo, e tra le pagine del romanzo, con naturalezza e senza artifici.
E così con estrema naturalezza ho iniziato ad immaginare questa trentenne torinese con le All Star fuxia e la frangetta spettinata, un’allergia alla vaniglia, la passione per la penna e la predilezione per cacciarsi in situazioni complicate…
Io e Viola abbiamo diversi tratti in comune, perché anche io come lei amo prendere la vita con leggerezza ed ironia e, se mi proponessero l’ideazione di un testo con un protagonista “ruspante” come il tacchino di Viola, credo proprio che accetterei la sfida…
B: Il rapporto tra Matilde, l’archistar, e Viola è molto complicato. Credi che due cugine cresciute insieme come sorelle possano allontanarsi tanto?
MC: Matilde e Viola hanno condiviso un’infanzia spensierata ma poi il successo stratosferico di Matilde e le diverse scelte di vita le hanno condotte verso strade divergenti.
Solo in apparenza sono “lontane” frequentano entrambe la residenza di famiglia “Villa Fiorita” ma si ignorano reciprocamente.
In realtà sono molto più vicine di quello che pensano perché entrambe desiderano alcuni aspetti della vita dell’altra anche se non lo ammetterebbero mai: Matilde a volte desidererebbe la spensieratezza di Viola e la sua libertà del poter fare scelte anticonvenzionali ma anche Viola in realtà è ambiziosa e lotta con tenacia per cercare la sua affermazione professionale, perché vuol dimostrare che non è certo inferiore alla cugina. Ha solo scelto un sogno diverso…
B: Tu hai frequentato lezioni di scrittura creativa. Credi siano utili? O è meglio formarsi sui libri?
MC: Per la mia esperienza si tratta di percorsi molto diversi ma complementari. La lettura è fonte continua di ispirazione, confronto, studio e arricchimento.
I corsi invece ti fanno mettere le “mani in pasta” direttamente nei testi che scrivi, ti suggeriscono un modo nuovo di amalgamare parti della storia, di creare le parabole e i legami dei personaggi. Se si possiede già la sceneggiatura di una storia penso che fare un corso individuale con docente o un editor possa aiutare tantissimo: ti aiuta a capire se la storia funziona o no e se può migliorare. Ti accende un riflettore esterno e ti supporta a riflettere su aspetti della struttura e della narrazione che magari non avresti colto perché essendo l’autore sei spesso troppo “dentro” la storia per poterla osservare da tutti gli aspetti.
Tornassi indietro rifarei per il mio romanzo lo stesso identico percorso anche se è stato lungo e impegnativo ma ho proprio visto cambiare il mio stile di scrittura...
B: Ci sono degli autori a cui ti sei ispirata?
MC: Sì, Stefania Bertola, di cui ammiro l’originalità creativa e la colta ironia, Luca Bianchini, per l’autenticità dei personaggi che descrive senza troppi artifici, e naturalmente l’effervescente e geniale Sophie Kinsella.
B: Con altre tre autrici, curi l’iniziativa “4 writers, 4 blog”. Ci racconti qualcosa?
MC: Con Arianna Berna, Silvia Devitofrancesco e Loriana Lucciarini ci siamo conosciute via web condividendo la passione per la scrittura e partecipando ad alcuni concorsi letterari.
Ci siamo “piaciute” ed è nata la voglia di fare qualcosa insieme…
Abbiamo creato un blog e ora stiamo realizzando un testo narrativo a quattro mani nell’ottica di un progetto sociale a sostegno di un centro antiviolenza.
B: Quali sono i tuoi progetti futuri? Ritroveremo Viola con la sua allergia alla vaniglia o la sua storia si è conclusa?
MC: Il mio progetto futuro è trovare un editore adatto a Viola e mi piacerebbe poter continuare a scrivere di lei e di “quel ciuffo” (come dici tu nel tuo ricettario libroso ;)) di personaggi un po’ strambi che le fanno da contorno.
So che tutti loro hanno ancora molto da raccontare perché è un po’ che mi solleticano con le loro idee, anche quando cerco di concentrarmi su qualcosa di nuovo…

domenica 23 marzo 2014

MI ARRIVI COME DA UN SOGNO

Salve lettori, la mia recensione domenicale sarà - anche questa settimana - dedicata alla nuova penna della commedia romantica italiana, Diego Galdino. Ho letto per voi il suo secondo romanzo Mi arrivi come da un sogno e ora lo recensisco in questo post. Se vi ricordate, la critica a Il primo caffè del mattino era positiva. Questo romanzo sarà all'altezza del precedente?
Scopriamolo insieme.



TRAMA:
Lucia è una giovane giornalista di Siculiana, piccola città della Sicilia, in cui ogni anno avviene lo "sbarco": centinaia di tartarughine rompono il guscio e si tuffano in mare tutte insieme, come un'onda in senso contrario. Lucia, insieme a sua nonna Marta, ha sempre assistito a questo spettacolo, ma pare che quest'anno debba perderselo: è stata infatti chiamata per uno stage di tre mesi all'Eco, importante testata giornalistica romana. Nonostante il parere contrario dei genitori e del fidanzato storico, Rosario, la ragazza parte per inseguire il suo sogno.
Una volta a Roma, incontra Clark Kent (nessuna parentela!), giovane e affascinante giornalista americano. L'uomo lavora nella sezione Cultura del giornale, la stessa di Lucia. Pian piano tra i due si instaura un rapporto profondo che si trasforma in amore.
Ma Lucia è ancora impegnata con Rosario, così decide di tornare a Siculiana per lasciarlo. Ma l'imprevisto è dietro l'angolo: la ragazza ha un incidente e perde la memoria. Quando Clark lo viene a sapere la raggiunge immediatamente. Riuscirà a farla innamorare di lui una seconda volta?

RECENSIONE:
Prima di aprire il libro preparate una siringa d'insulina...ne avrete bisogno! Brani un po' troppo sdolcinati sono, infatti, l'unico vero difetto di questo romanzo appassionante e ben riuscito.
Nonostante una trama di fondo molto usata (all'osso: due giovani si innamorano, lei perde la memoria, lui la deve riconquistare), Galdino riesce comunque a essere originale (e non è poco!), ma soprattutto a far ridere e a far sognare, cosa che dovrebbe fare ogni scrittore di romanzi d'amore che si rispetti.
Ancora una volta non troviamo protagonisti stereotipati ma molto profondi e unici, attorno a cui si muove tutta una serie di personaggi minori ben caratterizzati. Originale l'idea di chiamare il protagonista Clark Kent, cosa che da luogo a tutta una serie di battute divertenti ma mai banali.
Lo stile è ironico ma allo stesso tempo quasi poetico. Uno stile che mi ricorda più che Nicholas Sparks - a cui questo scrittore viene spesso associato - lo scrittore francese Marc Levy. Un'associazione che mi viene naturale oltre che per lo stile anche per il tipo di storie raccontate, commedie romantiche con parti anche molto tristi, e per quella sua caratteristica così tipica di far fare una comparsata ai personaggi dei suoi altri romanzi.
In altri parole, per quanto Il primo caffè del mattino fosse un romanzo senza dubbio particolare, caratteristico e completamente originale, Mi arrivi come da un sogno è più ironico e meglio costruito.
Vi auguro, quindi, una buona lettura.
Per il momento è tutto.

Biancaneve

giovedì 20 marzo 2014

YOU GOD

Per l'angolo emergenti, oggi voglio parlarvi di una raccolta di fantascienza cristiana. La raccolta si intitola You God e l'autrice si chiama Annarita Petrino.


RECENSIONE:
La raccolta si compone di quattro racconti: Imperfezioni, Judy Bow, Hic et Nunc e You God.
I primi due sono molto interessanti e, più che dare giudizi religiosi, raccontano una storia. Sono gradevoli e interessanti, pieni di pathos ed emozionanti. Il finale è sempre aperto, accattivando l'interesse del lettore.
Purtroppo non posso dire la stessa cosa degli ultimi due racconti, che non hanno una vera e propria storia, ma sembrano più riflessioni personali sul futuro della religione. In modo particolare mi riferisco a Hic et Nunc si configura come un insieme confuso di pensieri e di citazioni dell'Apocalisse, senza spiegare al lettore il senso della storia che si vorrebbe raccontare. 
Insomma, in definitiva c'è del buono in questa racconta, ma l'autrice ha ancora molto da imparare.
Per il momento è tutto.

Biancaneve

mercoledì 19 marzo 2014

INTERVISTA A CARLO SPERDUTI

Salve, lettori compulsivi. Oggi voglio presentarvi lo scrittore romano Carlo Sperduti, che ho incontrato venerdì 14 marzo al reading Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi che si è tenuto presso la libreria Il Ghigno a Molfetta (la mia città). Poco prima di questo incontro, ho potuto incontrare questo autore e intervistarlo. La chiacchierata è stata divertente e istruttiva, così come la serata che ne è seguita. Ho registrato l'intervista e vi riporto la trascrizione.
Chi Carlo Sperduti? Classe 19, leone, ha frequentato il liceo scientifico e si è laureato in Lettere e Filosofia. Non è un attore, nonostante legga come fosse tale.



BIANCANEVE (B): Ciao Carlo, grazie per avermi concesso questa intervista e benvenuto nel mio blog, Biancaneve critica. Mi rifaccio all'idea del veleno, della critica avvelenata, deriva da là il titolo. Un po’ contorta come cosa.
CARLO SPERDUTI (CS): (ride) è una minaccia, quindi.
B: Sì, abbastanza. Bene, parlami un po’ di te, presentati ai miei lettori.
CS: Stai registrando, questa cosa non mi era mai successa! (ride un po’ imbarazzato). Ciao, sono Carlo Sperduti e – che faccio? – scrivo racconti, fondamentalmente perché mi piace la forma breve. I miei autori di riferimento sono tutti maestri della forma breve. Questo naturalmente non vuole che non leggo romanzi, però mi piacciono le strutture cristalline: tutto quello che nel romanzo è necessario, ad esempio tutto quello che riguarda la digressione o il dilungarsi, nel racconto è spazzata via perché in poche cartelle – per usare un termine editoriale abbastanza brutto – non bisogna sbagliare una parola e neanche una virgola. Quando si riesce a fare questo e, in quel poco spazio, creare un mondo altro, si è fatta un opera letteraria di un certo livello. Ti faccio un esempio banale per spiegarti quello che intendo: se si legge un qualsiasi racconto di Borges si ha un’idea di quello che sto dicendo a proposito del racconto breve. Uno qualsiasi dei Racconti delle finzioni è un cristallo, una geometria perfetta, ma è anche un mondo a parte. E riuscire a farlo in cinque pagine per me è ha del miracoloso. È tutto molto studiato e apprezzo proprio questo.
Questa da cui leggiamo qualcosa stasera è una raccolta, una miscellanea nel senso che è una cosa costruita a posteriori, non è nata come raccolta vera e propria, ma è un compendio dei racconti brevi e brevissimi che ho scritto negli ultimi quattro o cinque anni. Il criterio di selezione per la maggior parte della sezione dell’Intermezzo tragico che si commenta da sé è quella della cretineria, cioè ho preso i racconti più stupidi che io abbia mai scritto e li ho messi là dentro. Tutto qua.
B: Già in precedenza avevi pubblicato un altro libro…
CS: Sì, nel dicembre 2013, insieme a questa raccolta è uscito un libro con Intermezzi editore che si chiama Valentina controvento, che è in realtà un ebook, anche se c’è poi un’edizione limitata cartacea, che è in una collana che si chiama Ottantamila, che sarebbe il limite massimo di battute consentite a ogni autore: dalle quaranta alle ottantamila, quindi né un romanzo né un racconto vero e proprio, una via di mezzo, insomma. È la storia di una ragazza che deve progettare un macchinario contro la caduta dei cappelli, che è una tragedia che ci riguarda tutti, soprattutto quando tira molto vento. E sempre con Intermezzi un paio di anni fa ho pubblicato un romanzo breve tra il surreale e il metaletterario che si chiama Caterina fu gettata. In tutti e due i casi, il titolo precedeva la storia, cioè ho inventato prima il titolo e poi ci ho scritto la storia, come regola così, aleatoria.
B: Beato te! Io ho problemi a trovare i titoli…
CS: Questi sono facili perché sono ottonarie – taratara taratara: Caterina fu gettata, Valentina controvento. È sempre la stessa scansione, la stessa metrica.
B: Oltre Borges, hai qualche altro autore di riferimento a cui ti ispiri?
CS: Quanto tempo hai? (ride). Vabbè, rimanendo sul sudamericano, sicuramente Cortázar, sempre per motivi di maestria nella brevità; Adolfo Bioy Casares, sempre di quel giro lì, se lo vogliamo chiamare così; poi gli autori dell'Oulipo francese Georges Perec, Queneau, Roubaud per una questione di inversione dell’equilibrio tra il contenuto e la forma, cioè io sono convinto che il contenuto sia la forma, quindi una volta che la forma è azzeccata, hai fatto letteratura o comunque hai fatto qualcosa che c’entra con il mezzo che hai deciso di utilizzare ed è una questione anche di consapevolezza di quello che si sta facendo. Cioè, se io agisco nel cinema, a mio parere devo prima di tutto preoccuparmi  del fatto che sto utilizzando delle immagini in movimento, e una volta che ho fatto quello posso inserire il contenuto in una forma che sia quella, altrimenti non ci sarebbe differenza tra fare un film e scrivere un romanzo.
Poi, tra gli italiani, apprezzo sicuramente Calvino, ma per derivazione. In realtà ho cominciato a leggere prima Calvino, poi sono arrivato a loro e mi sono reso contro che era per derivazione che leggevo Calvino. Ultimamente sto leggendo un bel po’ di Buzzati.
Per andare indietro sicuramente Laurence Sterne, che andava oltre l’avanguardia a metà del Settecento e che prendeva in giro il romanzo ottocentesco quando ancora questo non esisteva. Per me questa è una cosa geniale. In Laurence Sterne c’è tutto, tutto quello che adesso consideriamo incredibilmente sperimentale, anche se considerare sperimentale ciò che esisteva già tre secoli fa è strano.
Poi sicuramente Cervantes. Chi altro? Andando indietro indietro – vabbè non andiamo troppo indietro! (ride) – Melville. Di Melville sicuramente Moby Dick, ma di più mi ha influenzato Bartleby lo scrivano. Stevenson, Jules Verne. Vabbè, basta! (ride).
B: Quindi anche l’avventura…
CS: Assolutamente! A me interessa l’avventura sempre per motivi chiaramente di divertimento, perché io sono convinto che la letteratura sia una cosa divertente, nonostante quello che dicono a scuola, perché poi il danno viene da lì: se mi si presenta la letteratura come una cosa su cui suicidarmi, allora è chiaro che io uscito da scuola non leggerò mai più un libro. Il punto è che la letteratura è divertente e lo è anche quando non lo sembra. Altro autore di riferimento: Edgar Allan Poe. Era un autore dotato, a parte di una perfezione nei racconti, anche di un’ironia strabordante. Il mito di Edgar Allan Poe come autore macabro finisce dove si supera il contenuto e si bada alla forma: qui ci accorgiamo che lui si divertiva come un matto. D’altra parte l’hanno trovato morto ubriaco in un seggio elettorale, cioè anche quando è morto ha fatto il cretino.
Qual era la domanda?
B: Chi erano gli autori a cui ti ispiri. Credo che tu abbia risposto in maniera molto esauriente.
CS: Ma sicuramente ce n’è qualcun altro.
B: Da dove prendi l’ispirazione? Dalla vita quotidiana o è tutta fantasia?
CS: In realtà, la parola ispirazione non mi piace.
B: Sì, non è molto corretta.
CS: Non mi piace per niente perché scrivere qualcosa è semplicemente applicare chiaramente quello che si vive, ma come in qualsiasi altra cosa bisogna applicarlo con un’ottica diversa. Degli elementi autobiografici ci sono sempre, per forza di cose, ma io tendo a eliminarli o a modificarli il più possibile perché non mi interessa che poi si va a dire: “Oh, vedi qui, questo autore dice questo perché gli era successo quest’altro”. Non mi interessa assolutamente, quello si chiama “gossip”, e non c’entra niente col raccontare una storia. È per questo che non parto mai dal contenuto, ma parto sempre da un’idea strutturale o da un concetto. Nel caso del titolo della mia raccolta, Un tebbirile intanchesimo – che è “un terribile incantesimo” detto in maniera dislessica – l’idea era quella concettuale di scrivere un racconto – non avevo assolutamente in mente la trama e neanche la struttura all'inizio – che si basasse su un difetto linguistico, su una devianza linguista. Una volta che mi è venuto in mente questo, mi è venuta in mente la dislessia, che non ha niente a che fare con la mia vita privata. E una volta che mi è venuta in mente la dislessia, mi è venuta in mente la struttura, o meglio l’espediente formale, cioè di scrivere il racconto interamente in “dislessico”, se si può usare questo termine per una lingua; e, al contempo, di far rientrare la dislessia come agente nella trama stessa del racconto: cioè, la dislessia non è solo il mezzo con cui ho scritto il racconto, ma è anche la chiave per risolvere l'intanchesimo.
Quindi, sempre prima l’idea concettuale e strutturale, e poi una trama adattata a quell'idea, mai il contrario, mai prima la trama e poi il resto. Questo è quello che faccio di solito. Ci sono delle eccezioni, di cui mi pento fortemente. In questa raccolta ce ne sono solo due su venticinque, quindi sto andando bene (ride).
B: Scrivi da sempre, da quando eri bambino, o è un qualcosa che hai maturato crescendo?
CS: Ho scritto dei racconti quando avevo nove anni, poi più nulla fino ai diciassette – diciotto, in cui ne ho scritti tre o quattro, poi più nulla fino a cinque anni fa. Quindi no, è una cosa che in maniera sistematica faccio da pochissimo tempo, al contrario di quello che faccio con la lettura: dai tredici – quattordici anni in poi non ho mai smesso.

domenica 16 marzo 2014

UN CAFFE', PER FAVORE!

Salve lettori compulsivi, la mia critica settimanale è dedicata a un nuovo scrittore molto apprezzato dai lettori e dalla critica. Sto parlando di Diego Galdino, barista romano come il protagonista del suo primo romanzo Il primo caffè del mattino.
Merita il successo che sta ottenendo? Scopriamolo insieme.


TRAMA:
Massimo ha trent'anni e da quando ne aveva diciotto manda avanti il bar di famiglia. Si alza ogni mattina alle cinque e va ad aprire il bar, dove prepara il primo caffè del mattino che, come da tradizione, non si beve ma si butta. Massimo, che per gestire il bar ha abbandonato la scuola rinunciando al suo sogno di diventare un critico d'arte, vive il suo mestiere come una missione e non si concede tempo per se stesso, specie per innamorarsi.
Almeno fino a quando nel suo bar non entra Geneviève, una ragazza francese. E' un colpo di fulmine, ma Genevieve non è una ragazza semplice: le esperienze della vita l'hanno resa dura e inaccessibile.
Riuscirà Massimo a farsi conoscere e amare? O Geneviève rimarrà dell'idea che sia un cafone, come testimonia la zuccheriera che gli rovescia addosso al primo incontro?

RECENSIONE:
E' un buon romanzo d'esordio. Delicato, a tratti divertente, e abbastanza realistico. L'unica vera grande pecca è forse una certa pretenziosità, caratteristica che si riscontra molto spesso negli esordienti. Cosa voglio dire? In pratica c'è uno sfoggio eccessivo di cultura che, se da una parte può compiacere il lettore, d'altra parte può irritarlo. Uno scrittore non ha bisogno di fare troppe citazioni dotte o di far vedere che sa i significati delle parole o simili. Tuttavia, essendo questa la sua opera prima, è una cosa che si può perdonare facilmente. In ogni caso Galdino ha avuto l'intelligenza di giustificare questo sfoggio mascherandolo come un bisogno di Massimo (il protagonista), che ha dovuto interrompere gli studi classici dopo la morte del padre per rilevare il bar. Quindi comunque il tutto ha una sua coerenza.
Coerenti sono anche i personaggi. Questa volta non dovete aspettarvi il solito figaccione che si scoprirà essere ricchissimo, né la solita bambola con zero autostima e il quoziente intellettivo di un moscerino. I due protagonisti sono invece persone vere, con le loro debolezze. E anche gli altri personaggi sono ben caratterizzati, ma mai stereotipati, perché tutti possiedono una sfumatura che li contraddistingue.
La storia è ben sviluppata, anche se personalmente avrei preferito che gli indizi sul passato di Geneviève fossero disseminati qua e là fin dall'inizio, e non sistemati tutti insieme nella seconda parte del romanzo.
Nel complesso si tratta di una storia d'amore tenera e delicata. Ho letto, a proposito di questo romanzo, che la vera protagonista è la città di Roma. Non credo sia vero. Certo, Roma svolge un ruolo importante perché fa da sfondo non sbiadito al racconto, tuttavia il vero protagonista è il caffè. Il caffè che viene visto non solo come bevanda, ma come momento sociale.
In definitiva, Il primo caffè del mattino è un romanzo che merita di essere letto, se volete passare qualche ora piacevole.
Per il momento è tutto.

Biancaneve

Ps: la foto è stata fatta da Ramona Granato, autrice del blog http://ingranato.blogspot.it/

martedì 11 marzo 2014

INTERVISTA A JOANNE HARRIS

E rieccomi - come promesso - con l'intervista a Joanne Harris! Per chi non la conoscesse è famosa in tutto il mondo per essere l'autrice di Chocolat, da cui è stato tratto il film del 2001 con Johnny Depp e Juliette Binoche. Ma Joanne Harris è molto più di questo. Classe 1964, è per metà francese (da parte di madre) e per metà inglese. Vive in Inghilterra e ha insegnato grammatica francese. Attualmente svolge unicamente il mestiere di scrittrice. Ha esordito nel 1989 con Il seme del male (titolo originale: The Evil Seed). E' curioso che questo romanzo sia un horror, dato che da piccola le era proibito leggere storie di vampiri. Questo romanzo non ha avuto un grande successo, ed è infatti stato modificato e ripubblicato pochi anni fa. Ha scritto finora una ventina di libri.
L'intervista ve l'ho tradotta in italiano, tuttavia alla fine troverete il testo originale in inglese. Buona lettura!


BIANCANEVE (B): Salve, signora Harris. La ringrazio per avermi concesso l'opportunità di intervistarla. Sono molto onorata di ospitarla nel mio blog. Lei ha sempre dichiarato di aver sempre scritto. Mi vuole raccontare le sue prime esperienze nel mondo dell'editoria?
JOANNE HARRIS (JH): Io ho sempre scritto. Quand'ero una bambina e poi un'adolescente, ho cominciato copiando gli scrittori che ammiravo, fino a quando, pian piano, non ho trovato il mio stile. Ci volle del tempo, ma probabilmente cominciò a emergere quando avevo all'incirca una ventina d'anni, anche se non passarono molti anni perché io mi sentissi abbastanza fiduciosa da tuffarmi e tentare di guadagnarmi da vivere scrivendo libri. Prima di Chocolat, non mi era mai passato per la mente; mi piaceva il mio lavoro di insegnante; mi divertivo a scrivere nel mio tempo libero e, fino ad allora, le due cose erano state perfettamente compatibili. Dopo il successo di Chocolat, mi trovai sommersa di richieste per promuovere il libro in Inghilterra e all'estero; mi resi conto che ciò era impossibile perché insegnavo a tempo pieno e così con rammarico - e molta ansia - ho dovuto fare una scelta. Sono contenta di averlo fatto, ma fu una decisione difficile.

B: Lei è una scrittrice poliedrica. Ha scritto storie d'amore (Vino patate e mele rosse, Chocolat), thriller (La scuola dei desideri, Il ragazzo dagli occhi blu), romanzi storici (Cinque quarti d'arancia), fantasy mitologici (Le parole segrete, Le parole di luce) e molto altro ancora. E tutti i suoi romanzi sono ben costruiti. Come riesce a passare da un genere a un altro in maniera così elegante? Infatti, la maggior parte dei suoi colleghi si concentra su un unico genere.
JH: Non penso che sia completamente vero. Perché uno scrittore deve limitarsi a un unico genere? Io credo che se gli scrittori si fossilizzano su un genere sia perché è ciò che vogliono i loro editori. Quello non è il mio modo di lavorare, comunque. Io non inquadro le storie in categorie. Io esploro semplicemente i temi e i caratteri che mi interessano maggiormente.

B: Le faccio questa domanda in qualità di sua fan, che la segue da ben dieci anni. In Chocolat, lei racconta la storia d'amore fra Roux e Joséphine. Tuttavia, ne Le scarpe rosse, ambientato quattro anni più tardi, ritroviamo Roux innamorato di Vianne. Com'è successo? Si è fatta in qualche modo influenzare dal film?
JH: Il film non ha nulla a che fare con i libri. Si tratta di una storia completamente differente. Per quanto riguarda Roux e Vianne, la vita li ha molto cambiati in quei quattro anni - ne Il giardino delle Pesche e delle Rose, io riprendo quello che è successo tra Roux e Joséphine. Se non l'ha ancora letto, le lascerò scoprire i dettagli...

B: Zozie è uno dei migliori cattivi degli ultimi anni. Com'è nata Zozie? La ritroveremo in altri romanzi?
JH: Chi sa quello che accadrà? Zozie è l'incarnazione della tentazione in tutte le sue forme. La parola che Anouk usa per definirla è "favolosa" - che sta chiaramente a significare tratta "da una fiaba" - e il suo nome deriva dal francese "sosie", che significa "sosia" o "immagine allo specchio", molto appropriato, io credo, perché è la personificazione del lato oscuro di Vianne. La mia editor Francesca (chi è abbastanza favolosa per lei, e una cattiva consigliera in fatto di shopping) dice che lei è una fusione tra Mary Poppins e Crudelia De Mon. A ogni modo, non sono molto sicura di come originariamente sia nata, ma ho basato qualcosa della sua personalità e del suo fisico sulla mia amica Joolz Denby, che mi ispirò la frase: "fanculo, sono favolosa!"; chi mi ha fatto fare shopping a Harvey Nicks in Leeds e mi ha insegnato tutto ciò che una malvagia avventuriera deve conoscere in fatto di make-up, moda, vestiti e - di sicuro! - scarpe è stata Anouchka.

B: Il mio romanzo preferito è La scuola dei desideri. Come le è venuta l'idea per questo romanzo? Il personaggio di Leon e la sua storia sono ispirati a qualcuno?
JH: Qualche volta accade che io basi i miei personaggi sulle persone che incontro. Conosco molti scrittori che lo fanno; anche se si tratta sempre di una caratteristica ricordata qui o di un modo di fare preso in prestito lì. Creare un personaggio non è come dipingerne il ritratto. E' più come fare un casting per un film a basso costo. Si cerca un tipo che possa andare bene per il ruolo, sapendo che l'attore a cui offre la parte può avere una personalità molto differente dal personaggio che sta interpretando. Ma anche se i miei personaggi possono sembrare tipi riconoscibili, chiunque abbia insegnato sa che questi tipi esistono in tutte le stanze del personale del Paese. I miei personaggi sono basati in parte sulle mie esperienze come insegnante nelle scuole, ma la storia è essenzialmente inventata.

B: Il romanzo che lei preferisce tra quelli che ha scritto è Cinque quarti d'arancia, una straordinaria storia ambientata durante l'occupazione tedesca. Perché ha scelto quel periodo?
JH: Perché è la storia della mia famiglia francese, specialmente di mia nonna, a cui il libro è dedicato.

B: Nei suoi romanzi c'è spesso un elemento magico. Come mai questa scelta?
JH: Sono sempre stata affascinata dal folklore e dalle fiabe, che sono la pietra angolare di molta parte dell'eredità letteraria europea. Di certo queste storie erano originariamente scritte per gli adulti e non per i bambini; e la loro oscurità e la crudeltà del loro simbolismo riflettono il tipo di mondo per il quale furono scritte. Io ritengo che il motivo per cui queste storie siano sopravvissute così a lungo (e ancora stanno offrendo l'ispirazione a una nuova generazione di scrittori) sia che la natura umana non è così cambiata rispetto al passato, da cinquecento anni a questa parte. Noi abbiamo ancora bisogno di credere nella magia; noi ancora speriamo in un lieto fine: nel trionfo del bene, nel riscatto dell'amore e nella sconfitta dei mostri (che siano sono dragoni e lupi mannari o pedofili e terroristi).

B: A proposito della magia, lei ha dichiarato di aver inciso su un nastro l'intero terzo libro di Harry Potter come regalo di Natale per sua figlia. E' anche lei una fan della saga?
JH: Non tanto quanto mia figlia - ma le ho letto tutti i libri quando era piccola e a entrambe piacciono.

B: Il ragazzo dagli occhi blu è un blogger. Cosa pensa realmente dei blog?
JH: Penso che lui lo usi, come molti fanno, per proiettare una certa immagina di se stesso, per fare collegamenti online e per sfuggire dalla sua routine di ogni giorno.

B: The Gospel of Loki è il sequel de Le parole segrete e de Le parole di luce? Cosa accadrà questa volta?
JH: Non è un sequel; è una riproposizione dei miti nordici dalla prospettiva di Loki, il dio imbroglione. Potrebbe essere considerato un prequel, ma è un romanzo a sé.

Ringrazio ancora la Harris per la sua gentilezza e la sua disponibilità. Per chi volesse, questa è l'intervista in lingua originale:
BIANCANEVE (B): Hello Mrs. Harris, I’m grateful to you for having this interview as an opportunity. I’m glad to entertain you in my blog. You declared you’ve always had been writing. Could you tell me about your first experiences in the world of the book industry?
JOANNE HARRIS (JH): I've always written. As a child and an adolescent I began by copying the writers I most admired, then I began slowly to find my own style. It took a while, but eventually it began to emerge when I was in my twenties, although it wasn't until several years later that I felt confident enough to take the plunge and try to make a living from writing books. Until Chocolat, the thought had never crossed my mind; I liked my teaching job; I enjoyed writing in my spare time, and until then the two things had been perfectly compatible. With the success of Chocolat, I found that the demands being made on me to promote the book in England and abroad were too much for me to handle whilst teaching full-time, and with some regret (and a lot of anxiety) I had to make a choice. I'm glad I made it; but it was a tough decision.
B: You are a multi-faceted writer. You wrote love stories (Blackberry Wine, Chocolat, ecc.), thrillers (Gentlemen & Players, Blueeyedboy), historical novels (Five Quarters of the Orange), mythological fantasy one (Runemarks, Runelight), and many others. All your novels are well built. How do you succeed in switching from a kind of genre to another one in such an elegant way? In fact, the greatest part of your colleagues are able to write only in one kind of narration.
JH: I don’t think that’s altogether true. Why should a writer write in only one genre? I think writers stick to one genre generally because their publishers want them to. That’s not the way I work, however. I don’t put stories into categories. I simply explore the themes and characters that interest me most.
B: As a fan, I would like to ask you this question. I have been following you for ten years. In Chocolat you built up the love story between Roux and Joséphine. Instead, in The Lollipop Shoes, four years later, Roux is in love with Vianne. How did it happen? Have you served to influence somehow as the film?
JH: The film has nothing to do with the books. I see it as a completely different story. As for Roux and Vianne, life has changed them both in four years – in PEACHES FOR MONSIEUR LE CURE, I go further into what exactly happened between Roux and Josephine. If you haven’t read it yet, I’ll leave you to discover the details for yourself…
B: Zozie is one of  the best villains of the last years. How did Zozie has born? Will we find her in other novels?
JH: Who knows what will happen? Zozie is the image of temptation in all its forms. The word Anouk keeps using is “fabulous” – which of course means “from a fairytale” – and her name comes from the French “sosie”, the word for “double” or “mirror image” – kind of appropriate, I thought, as she is the personification of Vianne’s dark side. My editor Francesca (who’s pretty fabulous herself, and no mean hand at shopping) says she’s a mixture of Mary Poppins and Cruella de Ville. Anyway, I’m not quite sure where Zozie originally came from, but I based some of the physical side of her on my friend Joolz Denby, who inspired the phrasefuck off, I’m fabulous; who takes me shopping to Harvey Nicks in Leeds and has taught both Anouchka and myself everything an evil adventuress needs to know about make-up, fashion, clothes and – (of course) shoes.
B: Gentlemen & Players is my favourite novel. How did you have the idea for this novel? Are the character of Leon and his story inspired to someone?
JH: It does sometimes happen that I base my characters on people I have met. As far as I know all writers do; although it’s never much more than a remembered feature here or a borrowed mannerism there. Creating a character isn’t like painting a portrait. It’s more like casting for a low-budget film. You look for a type to fit the role, knowing that the performer to whom you offer the part may have a very different personality from the character he is playing. But although my characters may seem to follow recognizable types, anyone who has been in teaching knows that these types exist in all staff rooms around the country. My characters are based in part on my experiences as a teacher in several schools, but the essential story is my invention.
B: The novel that you prefer among those that you have written is Five Quarters of the Orange, an extraordinary story about the scenes which are behind the German Occupation. Why did you chose this period?
JH: Because it’s the story of my French family, and most especially of my grandfather, to whom the book is dedicated.
BIn your novel there is often the magic element. Why this choice?
JH: I’ve always been fascinated by folklore and fairy-tales. They form the cornerstone of much of our European literary heritage. Of course, these stories were originally written for adults, not children; and their bleakness and cruelty of their symbolism reflects the kind of world for which they were written. I believe that the reason these stories have endured for so long (and are still providing the inspiration for a new generation of writers) is that human nature hasn’t changed very much over the past 500 years or so. We still need to believe in magic; we still hope for a happy ending; for good to triumph, for love to redeem us and for monsters (whether they be dragons and werewolves or paedophiles and terrorists) to be overcome.
B: Talking about the magic element, you declared you recorded the whole third book of Harry Potter as gift of Christmas for your daughter. Are you a fan of the saga?
JH: Not as much as my daughter - but I read all the books to her when she was a child, and we both enjoyed them.
B: Blueeyedboy is a blogger. What do you really think of his blog?
JH: I think he uses it, as many of us do, to project a certain image of himself, to make connections online and to escape the routine of his everyday life.
BThe Gospel of Loki is the sequel of Runemarks and Runelight? What will happen this time?
JH: It isn’t a sequel; it’s a retelling of the Norse myths from the perspective of Loki, the trickster god. It could serve as a prequel to the RUNE books; but it stands alone.

IL GIARDINO DELLE PESCHE E DELLE ROSE

Ed eccomi con la recensione a Il giardino delle pesche e delle rose, terzo appassionante capitolo della saga di Chocolat.


TRAMA:
Vianne torna a Lansquenet. Perché? Perché Francis Reynaud - Monsieur Le Cure - ha bisogno di lei. Incredibile - direte voi. Perché Francis Reynaud è l'Uomo Nero, colui che l'ha ostacolata quando otto anni prima aveva aperto la cioccolateria a Lansquenet. Ma le cose in quel tranquillo paesino sono molto cambiate negli ultimi tempi, a causa dell'arrivo di una comunità islamica. 
Riusciranno Vianne e Reynaud, coalizzati, a riportare la tranquillità in paese o tutto è destinato a cambiare?

RECENSIONE:
Nonostante questo romanzo faccia parte della saga di Chocolat, Il giardino delle pesche e delle rose si configura più come un thriller che come un romanzo d'amore con risvolti quasi fantasy (la magia domestica di Vianne). Infatti i toni sono completamente diversi: il romanzo è cupo, mozzafiato, incalzante, diversamente dagli altri che procedono seguendo un ritmo più lento. 
Ma anche i personaggi sono diversi, sono cresciuti. Vianne, dopo Le scarpe rosse, ha smesso di avere paura ed è tornata a essere la donna sfrontata e allegra che ricordavamo. Anouk non è più una ragazzina ribelle, bensì un'adolescente innamorata. Reynaud, per quanto ancora austero, non è più così rigido e ha imparato a scendere a compromessi e ad apprezzare Vianne. Ma soprattutto è un uomo solo, sconfitto, indifeso. Dopo averlo tanto detestato in Chocolat, in questo romanzo non si può far altro che provare pena per lui. 
E poi ci sono i personaggi nuovi, come sempre ben delineati e affascinanti. 
Questa volta la storia è narrata da Vianne e Reynaud, i due protagonisti. Tace - purtroppo - Anouk, che aveva avuto una voce importante ne Le scarpe rosse
Pare che la saga si concluda con questo romanzo. Tuttavia, il finale è - come sempre - aperto. Dobbiamo attenderci un nuovo romanzo? Chissà. 
Nel frattempo, buona lettura. 
Per il momento è tutto. 

Biancaneve

domenica 9 marzo 2014

LE SCARPE LECCALECCA

Salve lettori, in occasione della pubblicazione (martedì 11!) dell'intervista che ho fatto a Joanne Harris, vi voglio parlare di uno dei suoi tanti romanzo. Ho già recensito per voi Il ragazzo con gli occhi blu e Chocolat. Dal momento che Chocolat è una saga composta da tre libri, oggi e domani vi parlerò quindi di questi due romanzi, Le scarpe rosse e Il giardino delle pesche e delle rose


TRAMA:
Sono passati quattro anni da quando Vianne e Anouk hanno lasciato Lasquenet-sous-Tannes. Ora vivono a Montmartre, a Parigi, sotto falso nome, e con loro due c'è anche Rosette, la figlia di Vianne e Roux. Ma questa non è l'unica cosa che è cambiata. Vianne non è più la donna allegra e solare di quattro anni prima. E' cambiata, afferma di essere vedova e si veste sempre di nero. E' inoltre fidanzata con un uomo solido e rassicurante. 
Poi un giorno, il vento porta da loro Zozie de l'Alba, una ragazza allegra e sfrontata. O almeno così sembra. Perché Zozie altro non è che la Regina di Cuori, una ladra di vite. E la vita di cui vuole impossessarsi ora è proprio quella di Vianne...

RECENSIONE:
Un romanzo delicato e romantico. Un romanzo che fa sognare, sia pure con malinconia. Parte in sordina, con qualche lieve incongruenza con Chocolat, che riesce solo in parte a superare nel corso del romanzo e - soprattutto - nel successivo. 
A parte questo difettuccio, la storia è coinvolgente, a tratti struggente a tratti divertente. E' una storia corale: il romanzo è raccontato sotto forma di diario da Vianne, da Anouk e da Zozie, cosa che ci permette di cogliere più punti di vista e di conoscere fin da subito la storia a 360°. 
I personaggi vengono sconvolti: Vianne non è più la donna positiva e ottimista di Chocolat; Roux è più tormentato; Anouk è cresciuta e si comporta da adolescente... Ma il personaggio più attivo del romanzo è Zozie, la cattiva, che, con le sue scarpe leccalecca, porta una ventata di freschezza e di perversione. In fondo è intorno a lei - e non a Vianne - che ruota tutto. E anche le scarpe - come la magia - sono a loro volta protagoniste.
I colpi di scena sono dinamici, lo stile fluido e deciso, come sempre nei libri della Harris. 
Non continuo perché questo non è un romanzo che si può raccontare o commentare. Bisogna leggerlo. Vi dico solo che - a mio parere - è il migliore della saga. 
Per il momento è tutto. 

Biancaneve